Un saggio piano rotazionale è da sempre alla base delle pratiche agronomiche virtuose. A conferma, fino a 70-80 anni fa le rotazioni fra colture erano la strategia più razionale per minimizzare la presenza di parassiti, patogeni e malerbe. Inoltre, ogni coltura ha un suo rapporto diverso col terreno. Mais e frumento sono diversi da una leguminosa come l’erba medica, mentre da parte loro colza e barbabietola da zucchero hanno effetti differenti rispetto alle precedenti.
Nell’agricoltura di sussistenza, ossia quella che dava da mangiare in primis alle famiglie rurali stesse, serviva quindi avere un po’ di tutto, vuoi da mangiare, vuoi da scambiare. Poi venne la specializzazione colturale, dovuta anche all’abbandono delle campagne del Secondo Dopoguerra. Si moltiplicarono quindi macchine e attrezzature, insieme ad agrofarmaci e concimi, e ogni area del Belpaese si orientò a coltivare soprattutto ciò che meglio gli si addiceva.
Rotazioni sì, ma con cervello
In tale ottica, l’area a cavallo del Po è fortemente zootecnica, quindi il mais e poche altre foraggere la fanno da padrone. Sulle colline centro italiane la rotazione principale è frumento-girasole, mentre in Puglia a questa seconda coltura subentra il pomodoro da industria. Inoltre, chi coltiva riso non può certo immaginare rotazioni particolarmente lunghe, anche perché se le tre province regine, Vercelli, Novara e Pavia, dedicassero troppi ettari alle rotazioni, addio a buona parte del riso italiano. Perché il riso, piaccia o meno l’idea, si può coltivare praticamente solo lì, tranne rare eccezioni.
A tali aspetti sembra non abbia pensato l’Unione europea che in ossequio ai famigerati obiettivi di “Farm2Fork” dal 2024 in poi legherà i contributi Pac all’adozione di rotazioni relativamente lunghe e complesse. Peccato che le colture non rendono bene ovunque, come pure certi flussi produttivi dipendono per lo più da una specifica coltura, come accade per la zootecnia con il mais. In più, assecondando le richieste comunitarie i cerealicoltori che hanno contratti di filiera per il grano duro rischiano di dover dire ai propri clienti che non possono più consegnare loro il pattuito, poiché mezza azienda dovranno dedicarla ad altre colture che coi cereali nulla hanno a che fare.
Questo a meno di rinunciare ai contributi Pac, ovviamente. Una rinuncia che sarebbe però un vero e proprio suicidio per la maggior parte delle aziende italiane, rese nel tempo sempre più dipendenti proprio dai sussidi pubblici che, a voler pensar male, pare siano stati concepiti soprattutto al fine di imporre agli agricoltori ciò che più aggrada alla politica europea e nazionale. Che poi questa abbia senso o no, poco importa.
Titolo: Rotazioni dei campi sì, ma con cervello
Autore: Redazione